
Quante volte mi avrai tenuto la mano? Non so, non ricordo. Innumerevoli. Ricordo che in estate spesso andavamo insieme al supermercato. A piedi. Un grande negozio di alimentari nella periferia di Salò. Ma noi, in quegli anni, lo chiamavamo supermercato. Andavamo a piedi, mano nella mano, sotto il sole rovente del primo mattino. Di cosa parlavamo? Non lo so più. Io, comunque, non ho mai parlato molto, ma forse con te lo facevo.
Ricordo quella volta che, al mare, avevamo inventato una lingua tutta nostra per fare il verso agli stranieri. Né io né te sapevamo una parola in inglese o in qualsiasi altra lingua, ma funzionava.
Altre volte mi raccontavi della guerra, della tua casa vicina alla ferrovia che veniva sempre bombardata. Degli allarmi antiaerei e dei rifugi. Di quella tua amica che è morta in un rifugio crollato a causa di una bomba. E tu, non avendo trovato posto, ti sei salvata riparandoti sotto il Torrazzo. Di tuo padre che è morto. Non in guerra. E’ morto perché, mentre lavorava in fabbrica, si è rotto una gamba. L’hanno portato in ospedale e ingessato. Doveva salvarsi, che altro? Invece no. Non si sono accorti che aveva un taglio nel piede. E quando gli hanno tolto il gesso, dopo cinque giorni di sofferenza, era già troppo tardi. Com’è stato crescere senza padre? Non te l’ho mai chiesto. Mi hai sempre detto che era stata dura e io non so neanche cosa voglia dire.
Mi è capitato di vedere una foto di tua mamma, la mia bisnonna, di quando aveva una quarantina di anni. Ne dimostrava sessanta o forse di più. Come avrà fatto a crescere da sola tre bambini piccoli?
Ho avuto il privilegio di conoscerla. E’ morta che avevo dieci anni e lei più di novanta. Pensavo che anche tu non ci avresti lasciato prima dei novant’anni. E invece dopo neanche quattro anni te ne sei andata.
Non ho fatto in tempo a farti tutte queste domande. Non si erano formulate nella mia mente perché non sapevo tante cose.
Non sapevo che sei nata agli inizi del fascismo, che hai passato tutta l’infanzia e l’adolescenza sotto il regime. Non me ne hai mai parlato. Non un racconto, un aneddoto. Eppure anche a Cremona ne devono essere successe tante. Mai quanto in guerra, chiaramente. Era il tuo chiodo fisso. Me ne parlavi in continuazione perché certe cose non vanno dimenticate. Quante atrocità avrai visto e avrai omesso per non impressionarmi?
Quando l’Italia è entrata in guerra avevi 19 anni. Facevi la sarta e a quell’età, in quel periodo, saresti stata già vecchia per sposarti. Ma la guerra sospende la vita o la interrompe del tutto.
La tua mamma ha visto i suoi due figli partire soldati. Il più piccolo, che non era neanche maggiorenne, si è arruolato da volontario e dopo l’8 settembre si è nascosto sui monti bellunesi come partigiano. Quante volte le si sarà fermato il cuore pensando di averlo perso?
Qualche momento felice, però, c’è stato. Eri nel pieno della giovinezza e andavi a ballare nelle balere. In una di quelle occasioni hai incontrato, dopo tanti anni che non lo vedevi, il nonno. Tu ci eri andata con una tua amica. Lui era in licenza ed era tornato a casa. Stava nell’aviazione ed era stanziato in Sicilia. Deve essere stato uno tra i primi a tornare dalla guerra.
Il nonno non me lo ricordo. E’ morto che non avevo compiuto i tre anni. Mi ricordo la sera del funerale, però. Mi ricordo che eravamo a cena da te. C’ero io con i miei genitori e c’erano gli zii con le loro morose. Mancava il nonno. Io me ne sono accorta e te l’ho chiesto: “Nonna, dov’è il nonno?”. Non era nemmeno apparecchiato per lui. Era sparito. Tu sei corsa in camera tra le lacrime. Sono rimasta scioccata, perché non credevo che una domanda così semplice potesse fare tanto male. La mamma, allora, mi spiegò che il nonno era in cielo, sopra le nuvole.
Ho fatto fatica a capirlo e ad accettarlo, e tu? Tu che eri stata trascinata a Salò dal suo lavoro, che avevi dovuto lasciare la tua Cremona, i tuoi affetti e le tue amicizie, come hai fatto ad accettarlo?
Negli anni seguenti, quando mi lasciavano da te per farti compagnia, ti vedevo spesso seduta su una piccola seggiolina di legno a guardare fuori dalla finestra. Ogni tanto ti asciugavi gli occhi col fazzoletto che tenevi sempre nella tasca del grembiule. Quando ti chiedevo cosa avessi, mi rispondevi che non c’era niente che non andasse, solo che “ti lacrimavano gli occhi”. Ho sempre accettato questa spiegazione, ma il tuo pianto silenzioso me lo ricordo ancora adesso.
A cosa pensavi? Alla tua mamma che stava da sola a Cremona? A come sei stata sradicata e poi abbandonata in un posto che in fondo non ti piaceva? O forse speravi di veder tornare a casa il nonno? In fin dei conti se n’era andato da un momento all’altro e spesso mi hai raccontato che le ultime parole che gli hai detto erano: “Ricordati di comprare il pane”.
Quante cose avresti voluto dirgli? Parole di rabbia o parole d’amore? Quante domande sono destinate a rimanere senza risposta. Troppe. Mi manchi anche per tutte le risposte alle domande che non ti ho mai fatto. Mi manchi perché te ne sei andata all’inizio della mia adolescenza, quando non facevo altro che contestarti. Mi manchi perché vorrei scusarmi con te per quel mio atteggiamento sciocco e non mi basta averlo fatto tante volte sulla tua tomba. Mi manchi perché manchi alla mia mamma e troppe volte lei si è rivolta a me come se io fossi la sua.
So, però, che in questi anni ci sei sempre stata, che in qualche modo mi hai sempre protetta. Se penso a te, sento la tua presenza come non la sento per nessun altro. Sento che ancora mi stringi la mano e mi aiuti a superare gli ostacoli della vita.
Grazie, nonna. Ti voglio bene.
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